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Flaubert asseriva che l’artista deve essere nella sua opera come Dio nella creazione, invisibile e onnipotente. Il concetto naturalistico dell’opera che “si fa da sé” a partire da un impulso creativo è stato rilanciato, nell’ultimo dopoguerra, da artisti come Alberto Burri, Antoni Tapies ed Anish Kapoor. Su questa scia si pone Andrea Neri, che fa confluire i quattro elementi – terra, aria, acqua e fuoco – in una tecnica del tutto personale, che nasce dalla combinazione di due tecniche tradizionali, l’affresco e l’encausto, sinora ritenute incompatibili.
Applicando, inconsciamente, la teoria di Telesio sui principi che operano nell’universo, Neri fa in modo che i principi agenti del caldo e del freddo esercitino la propria azione sulla materia inerte. Questa azione si protrae nel tempo ed alimenta una concezione dell’opera “in fieri”, mai completamente finita, ma soggetta alla dimensione del divenire che appartiene ad ogni creatura vivente.
La sua ricerca artistica si sviluppa, in modo non lineare, tra continuità e innovazione, lungo due assi paralleli: da un lato il tema della natura, indagata nelle sue valenze razionali e irrazionali, biologiche e spirituali; e da un altro il tema della memoria, intesa come sedimentazione continua di esperienze, sensazioni, immagini e umori vissuti. Nella sua produzione degli anni Ottanta e Novanta, Andrea Neri, divergendo nella pratica ma non nella sostanza dalle correnti concettuali, recupera la manualità intesa come rapporto intimo, quasi carnale, con la materia, che dapprima subisce l’intervento dell’artista e poi se ne libera, lasciando che i principi agenti compiano “naturalmente” la propria azione. Sulla superficie scabra del tamburato, Neri lascia precipitare una congerie di segni grafici o materiali, i quali, pur nella loro elementarità, ispirano una complessità di rimandi segreti: il graffito, lo scabro, il levigato sono i segni del nostro passaggio, la memoria che si tramanda ed assume una dimensione mistica. Le sue tavole, dunque, si proiettano in una dimensione arcaica, atemporale, che sollecita l’osservatore a volgere lo sguardo oltre la superficie, attraverso i graffi e le crepe, in cerca del vero, di quel nocciolo esistenziale che sfugge alla percezione. Al contempo, Neri ricerca una forma essenziale che consenta di sprigionare la tensione e l’energia della materia, in un linguaggio icastico che aderisce al presente nel dialogo costante con la sfera emotiva e sensoriale.
In alcune opere, come “Fuori dai rumori”, “La vera” e “Lamenti”, la fredda geometria dell’impianto, basata l’iterazione del quadrato, è turbata dall’azione accidentale dei segni che invadono la superficie, anzi la graffiano e la corrodono con drammatica violenza. Ma la libertà del segno comunica anche un sentimento poetico, che rifugge dal rigore in nome della vera passione, che non è il dolce canto dell’amore, ma una forza violenta e distruttiva.
Alla fine degli anni Novanta, Andrea Neri recupera la passione per la fotografia producendo immagini digitali che scompone, ricompone e manipola attraverso i moderni software. Questo metodo di lavoro gli consente di sviluppare la fotografia non come tecnica di riproduzione, bensì come autonoma articolazione delle arti visive, realizzando operazioni creative dense di significato. Appropriatosi degli strumenti della comunicazione di massa, dunque, l’artista destruttura la percezione costruendo immagini composite in cui la realtà e l’immaginazione interagiscono fino alla fusione. Queste immagini diventano veicolo di messaggi che giungono alla percezione per vie extra-sensoriali ed attivano sepolti codici di riconoscimento e di empatia.
Tema centrale di questa produzione è il rapporto tra la vita e la morte, ovvero tra l’essere e il nulla, che non è altro dall’essere, ma semplicemente un ‘buco d’essere’, come direbbe Sartre.
Nelle elaborazioni di Neri, infatti, non vi è contrapposizione tra l’essere e il nulla, ma una rete di sottili rimandi concettuali attivati da segni e presenze simboliche. È proprio il simbolo, potenziato grazie all’uso della tecnologia, che permette all’artista di ricondurre il microcosmo al macrocosmo, il local al global, il proprio vissuto personale al sentire collettivo.
L’interazione tra l’io e il mondo esterno si riflette anche nella costruzione delle immagini, che si avvale di installazioni concepite come un set cinematografico.
Nelle sue più significative elaborazioni digitali, come “Rosetta di promastigoti”, Neri associa la bellezza della donna ad un organismo misterioso e affascinante, simile ad un seme che germoglia. L’osservatore, tuttavia, vi percepisce qualcosa di ambiguo e inquietante, come il rosso lucente di una bacca velenosa. Quell’organismo è un virus letale, metafora della società in cui viviamo, che inganna i nostri sensi con il miraggio di un mondo dorato e di un benessere a portata di mano. Sotto questo profilo, il virus ha le stesse proprietà di una mela transgenica, un pollo alla diossina, un palazzo di cristallo in cui si lavora dodici ore al giorno, o un palazzo fatiscente coperto da manifesti e insegne luminose.

Marco Di Mauro